mercoledì 11 marzo 2009

ABORTO TERAPEUTICO IN UN PAESE CIVILE

RIPORTO QUI DAL SITO: ABORTO TERAPEUTICO DALL'ESPERIENZA DI UNA DONNA ANGLOSASSONE, L'ESEMPIO DI COME VIENE GESTITO IN UN PAESE CIVILE, UN ABORTO NEL SECONDO TRIMESTRE DI GRAVIDANZA .

DIARIO DI UN ABORTO
Da “repubblica delle donne” del 6/9/03.

Una donna si accorge che il bambino che aspetta è affetto dalla sindrome di Down. E decide di interrompere la gravidanza, alla ventitreesima settimana di gestazione. Ecco il suo racconto, dalla prima ecografia sospetta al doloroso ritorno alla vita di ogni giorno.


Il 18 gennaio mio figlio è nato morto, dopo 23 settimane di gestazione. Era minuscolo, perfettamente formato e affetto dalla sindrome di Down. La decisione di interrompere la gravidanza l’abbiamo presa io e il mio compagno, insieme. Il nostro incubo è iniziato quando mi sono sotto posta alla classica ecografia, alla ventesima settimana di gravidanza. (...)Finalmente il medico ha terminato l’esame, e mi ha spiegato che alcune misure del bambino erano decisamente inferiori alla media. E poi c’erano due puntini sul cuore, due “deboli segnali” della sindrome di Down. Mi hanno dato un opuscolo e consigliato di ripresentarmi dopo quattro giorni per un consulto.Sono uscita dall’ospedale sotto choc. Mio figlio poteva avere la sindrome di Down. O perlomeno un disturbo cardiaco. Tutti i miei progetti iniziavano a crollare. L’asilo nido che avevo scelto per il mio primogenito di due anni, il congedo di maternità, i lettini a castello, le vacanze estive adatte a un neonato. Una a volta tanto che, nella mia vita, avevo provato a organizzarmi…….Elliot ha passato il fine settimana cercando di convincermi che sarebbe andato tutto bene. E il piccino scalciava con tanta forza che ho iniziato a crederci anch’io. La mia pancia cresceva e mi sentivo benone. Se non fosse stato per quei dubbi laceranti e persistenti.

Poi è arrivato il fatidico lunedì e io e Elliot siamo andati in ospedale.

Il medico ci ha subito rassicurati: avrebbe ripetuto l’esame ed era sicuro che sarebbe risultato tutto a posto. (...)Ma l’esame ha rilevato altri punti sul cuoricino e le misurazioni di qualche giorno prima sono state confermate. C’era motivo di preoccuparsi. Nonostante tutto, però, il medico riteneva che sarebbe andato tutto a posto. Ci ha consigliato subito un’amniocentesi, per escludere eventuali problemi cromosomici. Non avevo mai pensato di sottopormi a un’amniocentesi. Ero giovane, non credevo mi sarebbe servita.Se me l’avessero proposta prima, sono sicura che ne avrei discusso per ore, prima di prendere una decisione. Invece nel giro di dieci minuti mi sono ritrovata distesa su un lettino, in attesa. Nessuna discussione, nessuna riflessione. L’avrei fatta e basta. Ho provato una sensazione orribile. Tutti i miei istinti concorrevano a proteggermi la pancia, eppure ho permesso a qualcuno di bucarmela con un grosso ago. Ho dovuto farmi forza per non strapparmelo via con violenza. Non mi sembrava giusto. I risultati vengono comunicati poco alla volta. Il primo, quello che ti dice se tuo figlio è affetto dalla sindrome di Down, è pronto dopo soli tre giorni; eventuali altri problemi cromosomici non possono essere esclusi prima di tre settimane. Così siamo tornati a casa: io mi sono messa a riposo, per scongiurare un eventuale aborto, mentre Elliot cercava di rincuorare entrambi. (...)Il terzo giorno abbiamo ricevuto una telefonata. Ero seduta sul divano e stavo lavorando. Samuel era al nido e Elliot in bagno. Era un altro medico, che mi ha detto: “temo di avere brutte notizie. Vostro figlio è affetto dalla sindrome di Down”. Non so come, sono riuscita ad alzarmi per raggiungere il bagno e dare la notizia ad Elliot. Dovevamo correre subito in ospedale. Sono crollata. (...)Sono riuscita a dirlo a mia madre, che si è subito offerta di venire in ospedale con noi. Appena arrivati, ci hanno mostrato una stanzetta. Ho subito notato la scatola di fazzoletti sul tavolo: non era un buon segno. Il medico ci ha mostrato la lettera con l’esito degli esami. C’era scritto davvero “sindrome di Down”.

Era tutto vero. Il medico ci ha spiegato che era solo una questione di sfortuna perché, per quanto ne sapevano, non c’era nulla di genetico. Poi ci ha detto che cosa avrebbe significato per il bambino. Aspettativa di vita: 30 o 40 anni. Non sarebbe mai stato in grado di badare a se stesso. Probabilmente avrebbe sempre avuto problemi di salute. Poi ha passato a spiegarci che cosa avrebbe significato per Samuel, che fino a quel momento era stato un bambino sanoe felice: con un fratellino così, la sua infanzia sarebbe stata completamente stravolta. Anche io e Elliot avremmo avuto una vita molto diversa rispetto a quella che ci eravamo sempre immaginati.

Ho capito subito qual’era la decisione giusta da prendere. E davo per scontato che Elliot sarebbe stato d’accordo con me.

Dovevamo interrompere la gravidanza. (...)Non avevo pensato ai meccanismi legati all’interruzione di una gravidanza già così avanzata, ma pensavo si trattasse si un intervento. Mi avrebbero fatto l’anestesia e al risveglio non sarei più stata incinta. Invece no. Avrei dovuto prendere alcune pastiglie, sotto la supervisione di un’infermiera. Poi, tre giorni dopo, avrei dovuto andare in sala parto, la stessa dove sarei dovuta entrare dopo due mesi e mezzo. E lì avrei fatto nascere il mio bambino. Obbligarmi a mandar giù quell’orrenda pastiglia è stata la cosa più difficile che mi sia mai capitata di fare. (...) Ho mandato giù quella malefica compressa e siamo tornati a casa , facendo una lunga passeggiata. Il bambino scalciava felice, senza sapere che cosa gli avevo fatto. L’estremo tradimento. Non so come abbiamo fatto a trascinarci per i due giorni seguenti. Era come se io e Ellit ci trovassimo in una specie di limbo. Non riuscivamo a parlare di quello che stava accadendo. Non potevamo dire di aver perso il bambino perché era ancora dentro di me che scalciava, ma non potevamo neppure fingere che andasse tutto bene. Ci siamo rintanati in casa. Cercavo di non stare seduta immobile troppo tempo, per non rendermi conto dell’esserino che portavo in grembo. Le notti, poi, erano impossibili. Parlavamo fino all’alba, guardando qualsiasi schifezza alla tv. Per tutto il tempo nostro figlio ha continuato ad agitarsi, e io mi sentivo come un’assassina in attesa di sferrare il colpo mortale. Avevo sempre considerato i calci da dentro la pancia come una delle emozioni più forti mai sperimentate. In quei giorni, invece, ogni movimento equivaleva a una tortura.Il potere a nostra disposizione ci stava facendo impazzire. Elliot e io potevamo decidere di non far vivere quella creatura. Gli stavamo negando il diritto alla vita. Era una facoltà troppo grande per noi, non ce la facevamo.

Chi non sapeva quello che stava succedendo davvero era sicuro che stessimo facendo la cosa più giusta.

(...) Stavamo risparmiando dolore e sofferenza a mio figlio. L’aborto avrebbe comunque evitato una tragedia peggiore. Sarebbe stato un duro colpo per me ed Elliot, nient’altro. Ma era davvero la scelta giusta? Non avevo nessun indizio. Per cinque mesi il mio corpo aveva saputo che c’era qualcosa che non andava, eppure mi ero sempre sentita benissimo: non ero più tanto sicura di potermi fidare del mio istinto. Sapevo solo che mi sentivo da cani. Poi è arrivato Sabato. Mia madre si è presentata prestissimo per prendersi cura di Samuele io ed Elliot abbiamo preso un taxi per andare in ospedale. Mentre entravo in sala parto, speravo di incontrare qualcuno che mi dicesse: “ Torna a casa sei in anticipo di sedici settimane”. Ma nessuno mi ha detto niente. Invece, un’ostetrica ci ha accompagnati in una stanza poco lontano dalla sala parto e ci ha spiegato quello che sarebbe successo. La poveretta aveva le lacrime agli occhi e io mi sentivo responsabile. Poco dopo è entrato il ginecologo con le compresse che avrebbero indotto il parto. Mi ha poi elencato i diversi tipi di antidolorifici che avrei potuto scegliere; ho optato per una flebo di morfina.

E così è iniziato il giorno più assurdo della mia vita. Le contrazioni sono incominciate quasi subito e nel giro di un’ora mi si sono rotte le acque.

Speravamo che tutto si risolvesse alla svelta ma di fatto ho dovuto aspettare altre 11 ore prima che il bambino nascesse. So che avrei potuto partorire in un quarto del tempo, ma non sopportavo l’idea che il suo corpo abbandonasse il mio. Non riuscivo a spingere. Per quanto doloroso e traumatico fosse il parto, sarebbe stato sempre meglio di quello che mi aspettava dopo. Così sono rimasta a letto, con Elliot accanto a me. Si sono succedute tre ostetriche e con ognuna di loro ho parlato delle stesse cose. Dovevamo decidere che cosa fare del corpicino subito dopo il parto. Sia io che il mio compagno eravamo convinti che sarebbe stata una buona idea trarre qualcosa di positiva da un’esperienza così traumatica, magari usando il corpo per scopi scientifici. Ma nessuno di noi riusciva a esprimere apertamente questo concetto. Non ce la facevamo a usare quei termini.

(...)Alle sette di sera non avevo ancora partorito. Dopo un po’ l’ostetrica ha sussurrato dolcemente:”credo che a questo punto dovremmo far nascere il bambino”. Sapevo di non avere via di scampo. Ci sono voluti 20 minuti per spingerlo fuori, e per tutto quel tempo io ed Elliot non abbiamo fatto altro che piangere, senza riuscire a controllarci. (...)

Più tardi ho visto e stretto il bambino tra le braccia. Elliot ci teneva molto. Io non sapevo più che cosa fosse giusto o sbagliato e gli ho dato retta.

Ora ringrazio Dio di averlo fatto. Il nostro bambino era bellissimo. Assomigliava tantissimo a Samuel da piccolo.Gli ho subito voluto bene e non avrei più voluto lasciarlo. Siamo tornati a casa un paio d’ore più tardi. A pensarci adesso, non so come abbiamo fatto. Probabilmente la morfina mi ha facilitato il compito. Le settimane successive sono state molto strane. Abbiamo fatto cremare il piccolo. Non c’era nessuno e non abbiamo avuto alcuna funzione. Abbiamo disperso le sue ceneri su alcuni bucaneve. All’inizio, ho dovuto fare i conti con le implicazioni legate al parto. Mi era arrivato persino il latte, che è sembrato durare un’eternità. In realtà, se n’è andato due settimane dopo la cremazione. Un altro crudele scherzo del destino. Adesso sto scendendo a patti con quello che mi è capitato. Mi sento solo molto sfortunata. Provo un odio profondo per le donne incinte e un grande rispetto per le coppie sterili. Per loro la vita in questo nostro mondo, deve essere insopportabile. Basta guardarsi in giro, e non vedi altro che future madri. Felici e contente. E’ impossibile sfuggire loro, e ognuna sembra voler sottolineare la tua perdita.

(...)Mi sono accorta che essere una brava persona è un lusso che non tutti possono permettersi. Che puoi essere buona e generosa solo se sei felice. Non è possibile essere profondamente infelice e mostrarsi gentili con gli altri. Perché quando sei arrabbiata con il mondo, che ti ha costretto a subire una cosa del genere, inizi a odiare anche le persone che lo popolano. E tendi a dare a loro la colpa di tutto. La domanda:”perché proprio a me?”, ricorre spesso. Perché a me e non a te, brutto bastardo? Come ho già detto, in questo periodo non sono un granchè simpatica. Non mi sorprende che le persone non sappiamo come trattarmi.

Mi sono impegnata tantissimo nelle opere di beneficenza, soprattutto a favore dei bambini malati.

Non serve ad alleviare il senso di colpa, ma non saprei cos’altro fare. (...)

So che la ferita è ancora aperta. E so che non posso accelerare il processo di guarigione. Ma è brutto stare sempre così male.Vorrei solo tornare ad avere una vita normale. Non voglio essere etichettata come vittima. Voglio gioire ancora con mio figlio, senza alcuna riserva. Voglio smettere di avere incubi. Voglio tornare a essere felice, buona e gentile. E voglio rimanere di nuovo incinta.

(Testo raccolto da Rolph Gobits The Guardian)

1 commento:

  1. Hai fatto la cosa giusta e le vostre riflessioni sono corrette, secndo me meriti ammirazione e non sei stata sfortunata anzi per fortuna ci sono persone come te che sanno gestire queste cose, ci vorraà del tempo per lasciarsi tutto alle spalle ma tornerai quella che eri vedrai! ;)

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